Sin dal primo sguardo sono rimasta letteralmente incantata dal talento artistico di Aurora Maletik. I suoi scatti, che hanno l’incisività e il fascino di fotogrammi cinematografici più che di tradizionali fotografie esplorano con puntigliosa e costante assiduità proprio questo territorio di frontiera tra le arti e catturano a piene mani frammenti di realtà spesso immaginate o soltanto evocate. Foto che sanno restituirci con incredibile freschezza sia l’immediatezza di un gesto concitato che la catarsi di un lungo momento meditativo e che diventano la traccia, o meglio ancora lo storybord, di altrettante storie possibili che l’Autrice, con grazia bambina e insieme con consumata maturità espressiva, capta dalla realtà e generosamente ci riconsegna affinché ognuno ne completi con la propria immaginazione, la propria esperienza e i propri desideri tutte le lacune, le lacerazioni e le porzioni nascoste. Affinché ognuno, insomma, possa ritrovarne in concentrazione e solitudine il prima, il dopo e l’altrove. Protagonista quasi assoluto di queste sue opere aperte è il corpo femminile, che viene finalmente trattato con inusitata amorevolezza, che viene morbidamente accarezzato e “ridipinto” nei toni di uno studiato e composto erotismo nonché delicatamente svelato attraverso scorci inediti, nella ricerca ininterrotta – e mai affettata o banale – di una bellezza inconfutabile sebbene immancabilmente velata da palpabile malinconia. Quel sentimento tipico di chi da sempre vive compressa nei recinti delineati e circoscritti da desideri non suoi. Una bellezza archetipica che si materializza in eleganti e spesso rarefatti arabeschi di luci e di ombre e si eterna in astratte e complesse armonie, una bellezza che abita anch’essa una terra di mezzo: vive sospesa negli scenari di una Puglia antica, enfatizzata nei suoi stessi ariosi paesaggi e visitata nelle ruvide trame dei muri sgretolati, dei vetri rotti, degli interni angusti – altrettante metafore di territori psichici fatti di spazi chiusi – ma che si popolano per contrasto di agili ed eteree presenze, onirismi e fantasmi che spesso appaiono solo di passaggio, tesi a cercare qualche improbabile via di fuga evocando le note languide e la leggerezza decadente di una agognata mitteleuropa. Evanescenze e rarefazioni, magiche rivelazioni che svelano la sensibilità di un’artista a tutto tondo, finalmente consapevole e fiera del proprio valore professionale e umano, tanto amica del suo sesso quanto poco incline a celebrarlo attraverso affettazioni o ammiccamenti, lontana dalle banalità e dai cliché del consumismo artistico e sessuale contemporaneo. Che poi Aurora sia materialmente dietro e insieme davanti alla fotocamera poco importa, casuale è il suo essere spesso modella di se stessa, mentre tipica è la modalità di scomporre l’immagine femminile in numerosi dettagli per poi frammentarla o moltiplicarla all’infinito nella magia degli specchi. Scrive Luigi Fenizi: “Che altro siamo se non immagini alla specchio? Immagini viventi, ma destinate a infrangersi e infine dissolversi. E’ quanto ci dicono ancora oggi Dioniso e Narciso, Perseo e Medusa: le grandi metafore del rispecchiamento. Esse testimoniano la nostra natura ambivalente, la nostra sfuggente identità. L’immagine speculare ce lo conferma, talvolta in modo angoscioso e perturbante. E’ in effetti il nostro doppio colui che ci osserva con il nostro steso sguardo, suggerendoci a suo modo che siamo stranieri a noi stessi. Metafora tragica, quella dello specchio. Attraversarla significa passare dalla parola al silenzio. Perchè a dispetto dell’apparenza lo specchio ci volta costantemente le spalle, restituendoci al mistero che da sempre ci abita.” (da Luigi Fenizi, Lo specchio infranto. Sguardi, metafore, enigmi). Sensazioni di mistero, incertezza, inquietudine amplificate dalla predilezione della Maletik per il bianco e nero, per le atmosfere noir, per i sapienti chiaroscuri, per l’originalità delle scelte luministiche tese a convogliare l’attenzione dello spettatore sulla sericità di un particolare, dal quale partire per risalire all’interezza del Soma, alla sacralità imperiosa e negletta del corpo femminile. Così, come in un fantasmagorico caleidoscopio, potremo ritrovarci tutte belle nella contemplazione di un qualsiasi amabile dettaglio, godere della nostra stessa bellezza e rafforzare la nostra immagine psichica in una ritrovata regalità femminile, ed infine riflettere sull’importanza, la pregnanza e la complessa drammaticità del non risolto: del rapporto con l’altro da sé… l’elemento maschile che, per quanto solitamente assente dalla scena, funziona comunque da elemento catalizzatore e determina emozioni, affezioni e delusioni, che suscita inconfessabili effimeri, impalpabili, e spesso irrealizzabili desideri, quelle stesse pulsioni interiori che ispirano prepotentemente il dispiegarsi stesso della sua espressione artistica. Grazie Aurora per questo struggente Inno a Venere Sovrana.
Rosamaria Francucci
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